Billy Elliot non poteva essere un ballerino, Jane Bhamra non poteva essere una giocatrice di calcio, ma non solo.
Molte altre persone, ancora oggi, nella vita reale, non possono sfogare le proprie emozioni, praticando lo sport più adatto a loro. Un vero e proprio spreco di talento, potenziale e di sogni. Ma ci siamo mai veramente domandati il perché?
Lo sport che rivela le nostre emozioni
Tutti noi sappiamo che lo sport è uno dei modi più comuni per sfogare le nostre emozioni. Allo stesso modo siamo anche consapevoli che esistono ancora molte persone che classificano gli sport come maschili e femminili. Dunque, se consideriamo entrambe queste credenze, possiamo affermare che anche le emozioni sono classificate come maschili e femminili. Ci siamo però mai soffermati su quanto questo possa rappresentare un rischio per noi?
Si parla sempre della difficoltà degli uomini a manifestare le proprie emozioni ma affermare in maniera assoluta che gli uomini non sfogano ciò che provano e che le donne sono per natura facilitate in questo è vero soltanto in parte. La verità è che gli uomini sono molto più propensi a manifestare emozioni come rabbia e disappunto, mentre le donne fanno meno fatica a tirare fuori il dolore.
Questo lo possiamo riscontrare anche nello sport: il padre di Jane non vuole che la figlia diventi una giocatrice di calcio perché correre dietro un pallone con l’obiettivo di calciarlo a grande potenza per poterlo buttare in rete, significa tirare fuori una grande scarica di determinazione e rabbia, tipicamente associati all’uomo. Allo stesso modo il padre di Billy rifiuta in maniera assoluta il talento del figlio nella danza classica, spingendolo a una carriera agonistica come pugile. Il problema è che la rabbia non appartiene a Billy, ma a suo padre.
Un retaggio culturale superato… ma non troppo
Certo la situazione attuale è migliore rispetto a quella del passato ma non possiamo evitare di vedere che ancora oggi troppi uomini faticano a danzare con le proprie emozioni e ancora troppe donne non riescono a legittimarsi il diritto di prendere a pugni la propria rabbia.
Ciò che fatichiamo a comprendere è che lo sport ha a che fare con le nostre emozioni, esattamente come le nostre emozioni hanno a che fare con la nostra vita e il nostro trascorso. Lo sport non ha niente a che vedere con l’identificazione di genere.
Al contrario, è forse molto più una questione culturale ancora troppo difficile da superare. Quando consideriamo uno sport più adatto a un genere piuttosto che a un altro probabilmente ciò che fatichiamo a legittimarci non è tanto l’atto fisico in sé quanto l’emozione da esso espressa. E soltanto questo troverebbe risposta al quesito che più volte ci siamo rivolti: “chi ha deciso se un dato sport è più adatto a un uomo o a una donna?”. Le emozioni. L’hanno deciso da sempre le emozioni, che esattamente come hanno la capacità di controllare il nostro umore e il nostro modo di comportarci, sono in grado anche di determinare molte delle azioni che svolgiamo nel nostro quotidiano.
Quindi sentirci liberi di praticare uno sport piuttosto che un altro sulla base delle nostre esigenze, ad oggi sembra essere non solo un atto di coraggio nei confronti della società ma anche una presa di posizione in difesa della propria libertà emotiva, una vera e propria legittimazione del nostro sé più profondo. Una battaglia che merita di essere combattuta.